"La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene
non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte"
(Costituzione della Repubblica italiana, Art.
27)
Dopo oltre dieci anni di incontri presso
comunità, case di accoglienza e carceri lombarde con detenuti ed ex-detenuti ho
maturato la convinzione che non solo la reclusione carceraria, per come è
impostata oggi in Italia, non abbia nulla di rieducativo (opinione direi oggi
largamente condivisa) ma che nella maggior parte dei casi questa esperienza sia
peggiorativa, ci restituisca cioè uomini e donne più compromessi, più
sfiduciati, oserei dire dis-educati e talvolta traumatizzati.
L'aspetto più dirompente della recente sentenza
emessa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella quale si condanna il
nostro paese per i trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti
risiede nel fatto che tale pronunciamento non si riferisce a violazioni
occasionali ma ad aspetti strutturali, di sistema, un sistema evidentemente
deviato alle sue fondamenta.
Chi in carcere ci è entrato, da qualsiasi porta
e per qualsiasi motivo lo abbia fatto, converrà con me che tale sentenza in
alcun modo stupisce; inquieta semmai, indigna, ci chiede fortemente, disperatamente,
di puntare i riflettori su una delle realtà più occulte e meno conosciute del
paese.
Eppure esiste a mio avviso una relazione
profonda tra l'istituzione carceraria e i temi dell'educazione e della
rieducazione a tutti i livelli: questa relazione non riguarda infatti solo i
detenuti ma anche tutti noi che da educandi o da educatori in qualche modo
abbiamo nella vita occasioni continue di commettere errori o di rapportarci con
chi ne commette (a partire, magari, dai nostri figli), di riflettere sulla
linea, talvolta sottile, che separa atteggiamenti punitivi da richieste di
assunzione di responsabilità. Secondo questa prospettiva e ragionando come
comunità dovremmo forse interrogarci se nelle carceri non ci siano anche
"i nostri figli", se non ci siano anche cittadini che domani
cammineranno al nostro fianco per la strada, se la possibilità che si
reinseriscano o che tornino a delinquere non dipende anche, magari in piccola
parte, da quali possibilità (materiali e di relazione) verranno loro offerte.
Per non limitarsi esclusivamente a riflessioni
personali, più o meno utili o condivise, si vorrebbe dare vita, su questo blog,
ad un percorso capace di rimandare le voci (o le grida), le storie, i racconti
dal carcere (a partire da Cremona, riferimento territoriale per noi) e dalle
persone che essendone parte o avendone fatto parte possano aiutarci a fare
luce, con l'ambizione di rilanciare la speranza di abitare luoghi vitali,
“mondi vitali”, anche laddove oggi sembrano prevalere spazi brutali, luoghi di
morte.
Mi torna in mente la frase di un anziano
sacerdote, che recitava così: "un figlio non amato non è semplicemente
solo o abbandonato ma è un figlio violentato, privato del pane".
Allora si avverte questa urgenza: partire dai
luoghi del non-amore, ovunque essi siano.
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