Segnaliamo un interessante e denso articolo di GIOVANNA ZINCONE pubblicato su La Stampa del 17 Luglio 2011.
Il fatto che il tuo avversario abbia torto non significa che tu abbia ragione.
Questo grano di saggezza di origine anglosassone purtroppo non ha prodotto ricche messi. Alcuni liberali più o meno doc paiono non aver colto una tale incongruenza logica: Il fatto che Marx avesse torto non vuol dire che Hayek avesse ragione. Che sia impossibile raggiungere una condizione di piena uguaglianza economica e di conseguente piena libertà politica, come pretendeva Marx, non vuol dire che muoversi sulla strada di una maggiore uguaglianza comporti un necessario scivolamento verso la pianificazione centralizzata e una perdita di libertà politica, come credeva Hayek e come, ancor oggi, credono suoi epigoni.
Questo grano di saggezza di origine anglosassone purtroppo non ha prodotto ricche messi. Alcuni liberali più o meno doc paiono non aver colto una tale incongruenza logica: Il fatto che Marx avesse torto non vuol dire che Hayek avesse ragione. Che sia impossibile raggiungere una condizione di piena uguaglianza economica e di conseguente piena libertà politica, come pretendeva Marx, non vuol dire che muoversi sulla strada di una maggiore uguaglianza comporti un necessario scivolamento verso la pianificazione centralizzata e una perdita di libertà politica, come credeva Hayek e come, ancor oggi, credono suoi epigoni.
Purtroppo, anche in occasione del recente dibattito sulla manovra finanziaria, la confusione logica tra torto dell’uno e ragione dell’altro - seppure senza riferimento esplicito ai due maestri- è tornata in campo. Sul banco degli accusati troviamo gli eccessi ugualitari del nostro Welfare che la finanziaria non correggerebbe restando così intrappolata nel deficit. E come origine del male e pietra dello scandalo vediamo citato l’articolo 3 della nostra Costituzione. «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza di cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione economica del Paese».
La diagnosi ingloba almeno due errori: il primo è che l’articolo 3 contrasti con una possibile interpretazione liberale del ruolo dello Stato; il secondo è che questa finanziaria sia sbagliata perché conferma gli eccessi ugualitari dell’intervento pubblico. Primo errore. L’articolo 3 non indica come meta verso cui dirigersi una marxista utopia di uguaglianza, non invita le politiche
pubbliche italiane a produrre in prospettiva una situazione in cui le classi sociali evaporino e tutti i cittadini abbiano parità di redditi e di beni. Propone, al contrario, di «rimuovere gli ostacoli» che impediscono lo sviluppo della persona, non qualunque diseguaglianza. Indica quindi l’esigenza che non sussistano situazioni di intollerabile privilegio e forti disparità nei punti di partenza.
È una ricetta che dovrebbe solleticare i palati liberali: non obbligo i cittadini a realizzarsi a modo mio, ma li metto il più possibile in condizione di farlo a modo loro. Senza scomodare il liberale progressista Rawls, che considera eticamente accettabili solo le disuguaglianze che generino maggiore benessere per i più poveri, ricordiamo gli scritti e le prese di posizione di Dahrendorf: quella che propone è l’uguaglianza rispetto delle Life chances, delle opportunità di vita. Proprio in quest’ottica Dahrendorf ha dedicato particolare attenzione, anche nella sua attività politica, all’istruzione. Un settore al quale certi liberali odierni i danno poco peso. Dahrendorf, inoltre, già negli anni Ottanta in Al di là della Crisi criticava sì il «consenso socialdemocratico» che aveva dominato a lungo su tutti i partiti democratici europei, liberali inclusi, ma lo faceva perché questa politica aveva espanso il Welfare in modo irrazionale e con strumenti sbagliati, creando gruppi iper-protetti e gruppi senza protezione.
Il percorso imboccato dalla manovra finanziaria merita di essere ripensato e corretto in base alla ricetta liberale: non solo spendere meno, ma prelevare e spendere in modo più equo; non cercare eguaglianza attraverso nuovi vincoli, ma rimuovere quelli vecchi che limitano le opportunità e ingessano immotivati privilegi.
Secondo errore. La manovra non è abbastanza severa perché vuole essere troppo ugualitaria. Non è vero. Il suo nucleo incorpora, al contrario, alcuni strumenti destinati a incidere in modo tendenzialmente regressivo su redditi e patrimoni, a colpire cioè più intensamente se non le fasce più povere, almeno quelle intermedie rispetto ai redditi più alti.
Vanno in questa direzione i tickets e i tagli orizzontali sulle detrazioni, come hanno già osservato diversi analisti. E vanno in questa direzione anche le norme relative all’imposta sul deposito titoli, che è marcatamente progressiva fino ai 500.000 euro, con i soliti effetti iniqui che derivano dalle soglie (chi sta subito sotto gode, chi sta subito sopra piange), per poi diventare piatta, e quindi sempre meno rilevante per i grandi patrimoni. L’effetto iniquo della soglia vale anche per il blocco all’adeguamento delle pensioni. L’esenzione dell’Ici sulla prima casa e sulle abitazioni utilizzate come prima casa da figli e parenti stretti dei proprietari non è stata introdotta ora, ma non è stata nemmeno ritoccata. Si tratta di un’altra norma che premia i più abbienti, perché le somme che dovrebbero pagare per le loro lussuose case sono molto più alte.
Però anche la disuguaglianza è utile, presenta infatti un importante aspetto positivo: spinge a fare e premia il merito. Questo versante della disuguaglianza è molto apprezzato dai liberali: guadagni pure di più e rivesta ruoli più importanti chi è più capace e produttivo, l’intera società se ne gioverà. In un’ottica utilitarista non si vede però a cosa serva la dicotomia tra lavoratori inamovibili e ben pagati, da una parte, e lavoratori precari e poco pagati, dall’altra. Dal momento che le due categorie operano fianco a fianco nelle stesse amministrazioni, nelle stesse imprese, negli stessi media e la categoria dei protetti non è necessariamente più meritevole né più produttiva dell’altra. Non si capisce quale sia l’utilità economica e sociale di questa disuguaglianza. Al contrario, quando si attribuisce un’eccessiva sicurezza «a un determinato gruppo, l’insicurezza del resto della popolazione non può che aumentare» e non è un bene per nessuno, cito Hayek. Sulle diseguaglianze create e tutelate dall’ordinamento, sulle nicchie di rendita sociale che distribuiscono in modo insieme iniquo e inefficiente sicurezza e insicurezza, insomma sulle diseguaglianze certamente illiberali, poco o nulla è stato fatto. Latitano o si ammorbidiscono le misure volte ad abbattere ostacoli corporativi allo svolgimento delle attività economiche e professionali.
Insomma, l’accusa rivolta a destra e sinistra da alcuni liberisti nostrani, di gonfiare il Welfare e di far proliferare regole per rincorrere un assurdo obiettivo di uguaglianza, dovrebbe essere riformulata. Il Welfare è stato spesso gonfiato a sproposito, nuove regole sono state imposte e vecchie regole non sono state soppresse soprattutto allo scopo di difendere piccoli e grandi
privilegi.
Il governo è intervenuto in fretta e l’opposizione non lo ha ostacolato perché era giusto e necessario agire subito. Ma sull’insieme delle strategie di fondo le forze politiche oggi in campo hanno bisogno di tornare a riflettere. Devono chiedersi quale Italia vogliono, con quali credibili strumenti intendono costruire un Paese meno antiquato ed iniquo, più capace di premiare merito e produttività senza però abbandonare i troppo deboli. Devono pensare con quali convincenti motivazioni possono costruire consensi intorno alle strategie che intendono adottare. E tutto questo, prima o poi, dovrebbero anche dircelo.
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