venerdì 29 aprile 2011

A spasso per la (non ) conciliazione Tempi di vita e di lavoro: qualche riflessione tra personale e professionale

Mentre pensavo a come iniziare a scrivere mi è capitata sott’occhio una frase di Altan: “c’è il boom della comunicazione: tutti a comunicare che stanno comunicando”.. già di per sé non è affatto male … Mi ha invece portato a pensare che tutti, o molti in questo periodo, rispetto ai tempi di vita e di lavoro, stanno comunicando che conciliano o concilieranno in vari modi e in varie forme.
Di fronte a questo boom provo un disagio crescente, sia dal punto di vista professionale che personale, vorrei provare ad esprimerlo e cercare un confronto.

Dal punto di vista professionale mi rendo conto che è un po’ paradossale visto che mi occupo, al momento, di progetti parenti prossimi, consanguinei direi, della conciliazione. Ma, contrariamente al detto “ogni scarraffone è bello ‘a mamma soia”, per il termine conciliazione mi verrebbe voglia di chiedere l’avvio di tutte le procedure di accertamento di paternità, oppure un periodo di affido extrafamiliare, giusto per rimettere insieme le forze e le idee. Un  parallelo da un lato forse pesante, ma che vuol segnalare la situazione difficile,credo diffusa, di chi fatica a ri- trovare i propri percorsi lavorativi scelti un tempo con entusiasmo e convinzione.  Dall’altro manifesta la necessità di riflettere a bocce ferme su modalità e prassi che, a fronte della complessità crescente del quadro sociale,  tendono a ridurne e comprimere gli aspetti salienti, le sfaccettature e le connessioni. In fondo, in periodi di crisi si tagliano anche  parole, significati, domande, riflessioni.. Finito il tempo dell’abbondanza: se “non c’è trippa per gatti” si va per approssimazioni, qualche volta si è anche approssimativi, ma va bene così.
Tornando al lato professionale, faccio riferimento alle iniziative che la Regione Lombardia ha lanciato (e finanziato con appositi bandi) per l’approvazione e attuazione dei Piani Territoriali degli Orari nei comuni al di sopra dei 30.000 abitanti (coerentemente con la legge 53/200 sui congedi parentali e il coordinamento dei tempi delle città).
Un disegno ardito quello di assumere il tempo, gli orari di lavoro (ormai ampiamente diversificati) e dei servizi della città come cartina al tornasole delle politiche pubbliche che dovrebbero (anche) attraverso questa prospettiva aprire ambiti di confronto e co- progettazione con chi la città la vive e la abita e fare i conti con stili di vita ed esigenze molto diverse a articolate.
Una sfida (altro termine che in fatto di boom la sa lunga) non di poco conto introdurre una variabile come il tempo, che non può che essere situata e negoziata a fianco o in integrazione con gli strumenti di pianificazione e gestione degli enti locali (Piano del Governo del Territorio, Piano della mobilità, Piano di Zona) più consolidati.
E la conciliazione sta pienamente  in questo quadro: la normativa regionale afferma infatti  la necessità di intervenire sui tempi della città “al fine di sostenere le pari opportunità fra uomini e donne e di favorire la qualità della vita attraverso la conciliazione dei tempi di lavoro, di relazione, di cura parentale, di formazione e del tempo per sé delle persone che risiedono sul territorio regionale o lo utilizzano, anche temporaneamente”.
Sta in un quadro plurale, complesso e dinamico, ha degli obiettivi delicati e vitali, deve essere aperta ma determinata nell’individuarli, negoziarli, raggiungerli e ricominciare, se è il caso.
La conciliazione…non se ne va in giro da sola a bighellonare con chiunque capiti oppure,come sta facendo, a scegliere da sola con chi stare, dimenticando tutto il resto. Perché poi, come spesso succede a chi ancora non ha solide basi, finisce che ci si confonde, si perde l’innocenza e la creatività, ci si identifica e si viene identificati con chi si frequenta, anche se i compagni di viaggio sono in difficoltà, ma più collaudati e solidi. Non penso che affrontare il tema della conciliazione dei tempi  “privilegiando” il legame  lavoro - famiglia (con progetti dedicati, tavoli di lavoro, iniziative specifiche) sia negativo o non necessario, ma “la parte non è il tutto” e  non riaffermarlo con forza può contribuire a rendere il quadro generale più arido anziché più ricco di possibilità.
A furia di tagli semantici, culturali, progettuali, il campo della conciliazione rischia di diventare via via più ristretto, certamente più visibile e delimitato, ma in tempi di crisi, ancor più pericoloso.
A mio parere non è un bel segnale il fatto che, nel momento in cui si tagliano i servizi o se ne aumentano i costi la conciliazione lavoro-famiglia diventi una priorità, un impegno politico e amministrativo forte che chiama ad azioni partecipate  le famiglie (o la donna all’interno della famiglia? ed entrambe al singolare o al plurale?), le associazioni, il volontariato perché ogni soggetto dia “responsabilmente” il suo contributo in un’ottica di flessibilità  (altra parola che non scherza in fatto di boom).
Se conciliare i tempi di vita (lavoro, affetti, cura, formazione e tempo per sé) diviene un “problema” che assume come campo di riferimento privilegiato quello dei servizi sociali e la “famiglia” come principale destinatario, se la parte diventa il tutto, un pezzo di orizzonte, uno sguardo con cui leggere e intervenire nel sociale in senso ampio viene meno e, soprattutto, può rimanere immutato il quadro complessivo che rende così faticoso per le persone, per le donne in particolare, conciliare i propri tempi di vita.
Ovviamente gli sguardi sono sempre parziali, ma l’ottica temporale è, per definizione, trasversale e comporta per le politiche pubbliche azioni e interventi che devono tener conto di fattori diversi. Sono in gioco i modelli dell’organizzazione del lavoro, della vita sociale, i servizi della città, la mobilità, il tempo libero e il tempo per sé. Allora forse andrebbe messa in campo e consolidata, anziché restringerla, una strategia più ampia che affronti non solo le differenze (soprattutto di genere) nella quantità di tempo ma che si focalizzi sulla qualità della vita e del tempo negli spazi e luoghi di lavoro, familiari, sociali e personali.
Mi aggancio a questo con qualche breve considerazione che riguarda proprio la qualità del tempo. C’era una volta anche il tempo per sé, così mi avevano detto più volte in Regione, ai corsi, negli incontri: tempo per sé, e se vogliamo esagerare, tempo libero.Tempo per sé come bene prezioso, risorsa vitale per  alimentarsi e vivere. Ma è stato tagliato, se sei madre (oltre che lavoratrice) è arrivato alla soglia del “minimo vitale”, se sei sola o peggio, se sei madre sola, son fatti tuoi.
Se sei “anche”madre il tempo per sé diventa, molto spesso, un tempo che, in qualche modo devi giustificare pubblicamente: mi capita quasi sempre di farlo e mi capita quasi sempre di osservarlo ascoltando amiche e conoscenti. Un po’ come il libretto delle “giustifiche” a scuola: data, ora, motivo dell’assenza, assenso del genitore o di chi ne fa le veci ( per conciliare allora torniamo sotto tutela?). E’ un automatismo culturale, forse  il segno di un senso di colpa universale, da parte di chi lo mette in atto e di chi lo ascolta.
Le donne-lavoratrici-anche-madri lasciando il/i figlio/a (alla loro mamma, sorella, amica, tata, vicina…una sorta di filiera al femminile) non dicono (più) “esco” (si prefigurano sguardi insinuanti:…non dice dove va, avrà un’amante? va dallo psichiatra? ), ma: “esco, altrimenti impazzisco” (gli sguardi approvano, quando è troppo è troppo, ci vuole un po’ d’aria), “devo fare il colore” (sguardi perplessi, occhi fissi al capello:non l’hai appena fatto?), “vado a comprare le scarpe” (disapprovazione totale: non si può portare il piccolo/a?), “vado a fare la spesa grossa” (approvazione incondizionata: è proprio brava a far tutto), “ho pensato di farmi un massaggio (vero disgusto: ha proprio tempo da perdere e soldi da buttare), “vado a fare il corso di...”(idem, più grilli per la  testa). Poi si esce e, tipicamente, si cammina ad andatura perdo-l’autobus-anche-stavolta, nel frattempo si telefona per lavoro o all’amica, oppure si riceve uno squillo dal marito il cui sguardo attraversa l’apparecchio sotto forma di un secondo in più di pesantissimo silenzio seguito dalla domanda con chi sta il figlio/a (altra giustificazione automatica più o meno costante quanto – a volte – neppure richiesta: faccio presto).
Sguardi esterni certo, tramandati di generazione in generazione con il passaggio da coppia a famiglia, da famiglia a famiglia, ma anche sguardi interni, che ci attraversano e, forse ci impediscono di cominciare ad affermare dentro di noi il diritto ad una migliore qualità del tempo vissuto nei diversi ambiti di vita, personale, lavorativa, famiglia compresa.
Riconoscere la qualità del nostro tempo vissuto come bene primario nei luoghi di vita e di lavoro, nei servizi intesi in senso lato, nelle aggregazioni, nelle relazioni pubbliche e private, come una sorta di “servizio essenziale” (che se fa sciopero scatta la precettazione) forse non è davvero un processo semplificabile (conciliabile?) con logiche molto più vicine, sotto mentite spoglie, alla razionalizzazione settoriale (familiare?…da boom a boomerang?). Magari ci richiede di essere “meno concilianti” per e nell’avviare i processi di modificazione non solo dialettici ma, necessariamente  discontinui e conflittuali, implicati  nell’assumere il tempo vissuto quale parametro della qualità della vita di tutti i cittadini e le cittadine sul territorio. 

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