Un imprecisato numero di porte si
sono già chiuse alle mie spalle; avrei voluto contarle ma il pensiero è rimasto
a quei troppi minuti sprecati per verificare se rientravo nella lista di coloro
in possesso del permesso per entrare; i nomi scritti a mano su un
quaderno-agenda che secondo me non trovi più nemmeno in vendita e i miei dubbi
legati alla assenza di uno straccio di computer: problema economico o legato
all’incapacità di chi dovrebbe usarlo?
Lunghi, spaziosi, labirintici
corridoi, chiavi enormi nelle mani delle guardie come nei film americani, come
nei videogiochi. Qui le parole e le urla rimbombano elevando ansie e
inquietudini alla ennesima potenza. Non riesco a cogliere nemmeno un particolare
che possa offrire una idea di conforto, speranza, accoglienza in quella che si
definisce “casa circondariale”, presso la quale per molto tempo una vasta
popolazione di fatto risiede ed un’altra, seppur meno numerosa, opera e lavora:
una casa senza i requisiti minimi di una casa.
Mi dicono di attendere in una
saletta l’arrivo di Maurizio; li sento discutere tra loro sul braccio di collocazione del detenuto. Entro nella stanza. Si
potrebbe definire ampio sgabuzzino. I muri sono scrostati, negli angoli tra le
pareti ed il soffitto spesse ragnatele per insetti anch’essi detenuti, i
pavimenti sporchi così come il vetro di una finestrella con le sbarre che
guarda un cortile chiuso, senza prospettive. Anche l’appendiabiti è rotto, così
decido di tenere la giacca; ci sono due sedie e sono rotte anche loro ma è
tuttavia possibile utilizzarle senza finire per terra. Unico elemento fuori da
questa orchestra della desolazione è la scrivania: grande, lunga, sembra nuova,
il suo colore nero carbone tiene fortunatamente al buio il resto
dell’arredamento.
Il colloquio non è ancora
cominciato ma so che dovrò farlo io, se ne sarò capace, uno sforzo importante
per offrire un po’ di luce in questo scenario asettico dove nulla è colore e
tutto sembra neutro.
Il colloquio non è ancora
cominciato e la strada è già una ripida salita, un viaggio della speranza verso
la speranza, “in direzione ostinata e contraria” per usare le parole di De
André rispetto a questi lunghi e troppi anni di non-politica, di non-scelte, di
edilizia pubblica (do you remember school?) che cade a pezzi, di non-cura e
quindi di non-amore.
In questo contesto ci muoviamo e
da qui dobbiamo ri-partire, Maurizio.
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