Come è possibile coinvolgere l'Opinione Pubblica in una nuova visione di welfare. Forse parlare all’Opinione Pubblica, alla gente, significa fare anche un’azione di immagine?
Mi
pongo questa domanda senza voler banalizzare il tema. Personalmente credo che
ci sia ancora un’immagine troppo negativa con tutto ciò che riguarda il
sociale. Sono ancora largamente diffusi stereotipi vecchi di anni ma che
riescono a resistere anche oggi.
In
generale “sociale” è ancora troppo connesso, nella visione collettiva, con
povero, sfortunato, svantaggiato.
Andare
ai servizi sociali chiama in causa dimensioni di giudizio, di vergogna, di squalificazione
personale.
Essere
in difficoltà, soprattutto di tipo economico, significa aver sbagliato, aver
fallito, non essere in linea con l’immagine di successo e di benessere
dominante, che non ammette l’insuccesso e che pretende determinati stili di
vita, …
In
alcuni casi sociale viene anche legato a “colpa” a comportamento illegale,
sbagliato, cattivo, deviato, ...
Infine
sociale come sistema per chi vive da “parassita” della società, da “furbetto”
alle spalle del pubblico, da “cronico” che non si riscatterà mai, ...
Queste
sono solo alcune delle “letture” che quotidianamente sentiamo vivendo nei
servizi.
Come
è possibile che l’opinione pubblica, intrisa di questi cliché, possa essere “scossa” da una nuova tensione che chiama la
società a non espellere i problemi sociali, ma a farsene carico all’interno di
una visione che trova fondamento sulla promozione del bene comune e per la
tutela dei diritti di tutti.
Forse
serve davvero un’azione di “marketing” per dare un’immagine positiva al sistema
welfare.
In
questa visione pauperistica del
sociale rischiano di essere trascinati anche gli operatori, pubblici e del
privato sociale, che, come i loro utenti, vengono “giudicati” negativamente,
come i delegati a farsi carico degli “espulsi”, coloro a cui è affidato il
compito di presidiare, da soli, il disagio.
Il
rischio, allora, è che il divario tra sociale e società rimanga incolmabile.
Lancio una provocazione: perché non fare una bella serie televisiva, una sit com, per
rilanciare l’immagine delle assistenti sociali e degli operatori sociali in
genere. Dopo i carabinieri, la polizia, i medici, fino alle suore ai preti,
forse è giunto il tempo che anche chi lavora nel sociale abbia un’occasione
mediatica per recuperare, agli occhi della gente, un po’ di credibilità, di
stima, di immagine positiva.
Andando
oltre la battuta, credo che la questione meriti attenzione, per evitare che
grandi sforzi di riflessione, progetti di partecipazione e campagne di
sensibilizzazione non raggiungano l’obiettivo sperato proprio a causa di
pregiudizi e di visioni diffuse che precludono il contatto con componenti
significative delle nostre comunità.
Faccio
un esempio: quando ci è capitato di convocare a tavoli di lavoro esponenti
delle categorie produttive, delle banche o del mondo economico in genere, per
proporre di affrontare insieme tematiche sociali (casa, lavoro, ...), spesso ci
siamo trovati a dover affrontare delle resistenze alla partecipazione, dovute
proprio alla nostra natura “sociale”. Non venivamo considerati degli
interlocutori “significativi” rispetto al loro ambito di intervento. Lo stesso
invito fatto magari a firma del Sindaco o dell’Assessore al Commercio per
parlare delle stesse tematiche trovava risposte differenti e maggiore adesione.
Ecco
che allora ... la nostra fragile capacità
di argomentare e di rendere visibile che tutti siamo parte attiva di una
comunità, diventa ancora più debole perché compromessa da condizioni poco
favorevoli che rischiano di precludere un’apertura al dialogo.
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