giovedì 27 giugno 2013

WELFARE E OPINIONE PUBBLICA

Come è possibile coinvolgere l'Opinione Pubblica in una nuova visione di welfare. Forse parlare all’Opinione Pubblica, alla gente, significa fare anche un’azione di immagine?
Mi pongo questa domanda senza voler banalizzare il tema. Personalmente credo che ci sia ancora un’immagine troppo negativa con tutto ciò che riguarda il sociale. Sono ancora largamente diffusi stereotipi vecchi di anni ma che riescono a resistere anche oggi.
In generale “sociale” è ancora troppo connesso, nella visione collettiva, con povero, sfortunato, svantaggiato.
Andare ai servizi sociali chiama in causa dimensioni di giudizio, di vergogna, di squalificazione personale.
Essere in difficoltà, soprattutto di tipo economico, significa aver sbagliato, aver fallito, non essere in linea con l’immagine di successo e di benessere dominante, che non ammette l’insuccesso e che pretende determinati stili di vita, …
In alcuni casi sociale viene anche legato a “colpa” a comportamento illegale, sbagliato, cattivo, deviato, ...
Infine sociale come sistema per chi vive da “parassita” della società, da “furbetto” alle spalle del pubblico, da “cronico” che non si riscatterà mai, ...
Queste sono solo alcune delle “letture” che quotidianamente sentiamo vivendo nei servizi.
Come è possibile che l’opinione pubblica, intrisa di questi cliché, possa essere “scossa” da una nuova tensione che chiama la società a non espellere i problemi sociali, ma a farsene carico all’interno di una visione che trova fondamento sulla promozione del bene comune e per la tutela dei diritti di tutti.
Forse serve davvero un’azione di “marketing” per dare un’immagine positiva al sistema welfare.
In questa visione pauperistica del sociale rischiano di essere trascinati anche gli operatori, pubblici e del privato sociale, che, come i loro utenti, vengono “giudicati” negativamente, come i delegati a farsi carico degli “espulsi”, coloro a cui è affidato il compito di presidiare, da soli, il disagio. 
Il rischio, allora, è che il divario tra sociale e società rimanga incolmabile.
Lancio una provocazione: perché non fare una bella serie televisiva, una sit com, per rilanciare l’immagine delle assistenti sociali e degli operatori sociali in genere. Dopo i carabinieri, la polizia, i medici, fino alle suore ai preti, forse è giunto il tempo che anche chi lavora nel sociale abbia un’occasione mediatica per recuperare, agli occhi della gente, un po’ di credibilità, di stima, di immagine positiva.

Andando oltre la battuta, credo che la questione meriti attenzione, per evitare che grandi sforzi di riflessione, progetti di partecipazione e campagne di sensibilizzazione non raggiungano l’obiettivo sperato proprio a causa di pregiudizi e di visioni diffuse che precludono il contatto con componenti significative delle nostre comunità.
Faccio un esempio: quando ci è capitato di convocare a tavoli di lavoro esponenti delle categorie produttive, delle banche o del mondo economico in genere, per proporre di affrontare insieme tematiche sociali (casa, lavoro, ...), spesso ci siamo trovati a dover affrontare delle resistenze alla partecipazione, dovute proprio alla nostra natura “sociale”. Non venivamo considerati degli interlocutori “significativi” rispetto al loro ambito di intervento. Lo stesso invito fatto magari a firma del Sindaco o dell’Assessore al Commercio per parlare delle stesse tematiche trovava risposte differenti e maggiore adesione.

Ecco che allora ... la nostra fragile capacità di argomentare e di rendere visibile che tutti siamo parte attiva di una comunità, diventa ancora più debole perché compromessa da condizioni poco favorevoli che rischiano di precludere un’apertura al dialogo.

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