Sono trascorsi pochi giorni dalla
tragedia (o forse sarebbe meglio dire, dalle tragedie) del mare di Lampedusa e
per la prima volta, forse a causa delle gigantesche proporzioni di questo
dramma, sembrerebbe che Italia ed Europa siano realmente intenzionate a porre
in atto misure per limitare le possibilità che un evento del genere possa ripetersi.
Nella speranza che ciò possa realmente accadere il mio pensiero non riesce a
staccarsi da quanto si è potuto leggere sugli organi di stampa pochissime ore
dopo il ritrovamento dei primi corpi in mare: politici di livello nazionale,
tra cui alcuni probabili futuri segretari di partito, che mentre ancora il
bilancio delle vittime risultava parziale già rilasciavano roboanti
dichiarazioni alla ricerca del capro espiatorio individuato per l’occasione nella
Presidente della Camera Laura Boldrini e
nel Ministro per l’integrazione Cecile
Kyenge.
Non sono bastate centinaia di vittime a suggerire, per almeno un breve
lasso di tempo, atteggiamenti più “prudenti”, di rispetto, di silenzio, di
pietà; e negli interventi ancora una volta è prevalsa la lettura di parte, lo
sciacallaggio, come se eventi di tale portata potessero facilmente essere
ricondotti alle presunte responsabilità di una o due persone. “E’ la politica
moderna” potrebbe dire qualcuno, dove i colpi bassi, l’opportunismo e le
scorrettezze non fanno più notizia. Altri messaggi, commenti e reazioni di
cittadini comuni sono andati in questa direzione.
Non a caso forse capita di
assistere sempre più frequentemente anche sul nostro territorio a episodi che
sembrano avere radici comuni a questo atteggiamento così privo di misericordia:
mi ha particolarmente colpito il racconto di uno sfratto subito da una famiglia
con tre figli, l’ultimo dei quali con pochi giorni di vita e qualche problema
serio di salute, nel quale i proprietari hanno agito una sorta di vero e
proprio sgombero con tanto di fabbro al seguito per cambiare la serratura alla
porta di ingresso dell’appartamento nonostante le ampie garanzie ricevute da
parrocchia e servizi sociali che di lì a pochi giorni avrebbero potuto offrire
uno spazio alternativo al nucleo famigliare.
Questi episodi sono sempre più
numerosi, spesso le istituzioni (i servizi sociali, la Caritas) ne vengono a
conoscenza a giochi già fatti, molte volte ci si imbatte in famiglie che sono
state persino raggirate, il cui iter di sfratto non è stato rispettato,
famiglie che hanno subito minacce, intimidazioni, vere e proprie forzature
(vedi cambio della serratura).
Qui non sono in discussione i diritti,
legittimi, dei proprietari di casa, non si vuole processare una categoria nella
quale tra l’altro in numerosi casi si registrano reazioni opposte e grande
comprensione pur dinanzi a perdite di denaro: si vorrebbe invece riflettere sul
nostro modo attuale di approcciare al dramma umano, alla fragilità e vulnerabilità
delle persone; non in astratto e non solo razionalmente ma nelle situazioni
concrete in cui abbiamo a che fare con esseri umani in evidente difficoltà.
Viene da chiedersi se in questi casi l’altro è davvero un essere umano e se lo siamo noi; viene da chiedersi cosa sia e dove
sia l’umanità.
Il vicino rifiutato o
non tollerato è specchio di una disumanità che sembra non tollerare ciò che è
fragile, difettoso, (malato, anziano, disabile, diverso), ci rimanda una
disumanità sempre più marcata che evidentemente non riesce a tollerare nemmeno
la fragilità che è dentro chi la perpetua. Che l’origine di questo male abbia a
che fare con una irrefrenabile spinta
alla protezione dei propri interessi, al denaro quale fine ultimo e idolo
assoluto?
I documentari sono soliti descrivere le belve come animali
feroci, la cui crudeltà, furia e violenza sono direttamente proporzionali al
bisogno naturale di sbranare le loro prede (più deboli), di cibarsi della loro
carne per rispondere ad un istinto mediato da nessuna razionalità, né pietà, né
morale; ma tra
l’uomo e gli animali la differenza è qualitativa e fondamentale: sta nella
ragione teoretica e nella volontà, che è libera e capace di amare e che
appartiene, o dovrebbe appartenere, solo all’uomo.
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