venerdì 16 novembre 2012

LA REPUBBLICA DELLE DELEGHE


Mentre una larga fetta di opinione pubblica e cittadini prosegue la propria opera di protesta e linciaggio nei confronti della classe politica, mentre la classe politica sembra arrovellarsi sulla soglia del premio elettorale o nei meandri dei regolamenti per le primarie, in un contesto sostanzialmente distruttivo, anzi autodistruttivo…mi chiedo, con fare retorico, se in questo paese non ci sia bisogno di (ri)aprire un dibattito, una riflessione critica sul meccanismo della delega a tutti i livelli.

Chi ha legittimato infatti questa classe politica a rappresentarci in parlamento, nelle regioni, nelle province, nei comuni? Chi ha scelto, seppur con tutti gli impedimenti/indirizzamenti che ben conosciamo, questi uomini e queste (poche) donne? Tenetevi forte, qualcuno potrebbe sbiancare: siamo stati noi! Si, è così, e vale anche, anzi soprattutto, per quelli che non hanno scelto, per quelli che per esempio hanno deciso, legittimamente, di non votare, autorizzando tuttavia implicitamente gli eletti (dagli altri) a decidere pure per loro.
Esistono quindi a mio avviso due comportamenti dapprima opposti ma poi, negli effetti, convergenti: il primo è di chi sceglie di delegare (col voto) lasciando tutto o quasi nelle mani del delegato; il secondo quello di chi decide di non delegare (astenendosi) ma di fatto autorizza altri a scegliere per lui; l’effetto convergente dei due comportamenti è ovviamente quello dell’attuale ribrezzo e rancore verso chi ci governa.

Alcuni comportamenti si ripetono anche in situazioni più circoscritte: per esempio, nella scuola e nell’asilo frequentati dalle mie figlie sono poche le mamme e i papà (nonostante l’alto numero di bambini) disposti a farsi carico di rappresentare i genitori stessi e impegnarsi perché i nostri figli possano crescere ed imparare in contesti migliori; la maggior parte preferisce delegare, con motivazioni di volta in volta comprensibili, incomprensibili o assenti. Così avviene nelle parrocchie, nei condomini  ed in molti altri ambienti, compresi quelli lavorativi dove spesso si fatica a trovare persone disposte a mettersi in gioco, sperimentare, correre il rischio di perdere qualcosa di proprio per il bene della collettività. Si preferisce delegare.
Così la delega, di per sé atto fondamentale e nobile che dovrebbe consentire ad alcuni di governare un mondo composto da tanti, perde la sua nobiltà e si trasforma in una delega a pensare anche per me, senza la forza di approfondire, di verificare, di appassionarsi al bene comune che è anche il mio bene. Un po’ come dire: “io ti autorizzo ad usare la mia testa” o (nella delega indiretta del non-voto che non riconosce dignità ad alcuno) “io ti autorizzo implicitamente a pensare al posto mio”.
Ad ogni tornata elettorale si registra una astensione sempre più elevata eppure non è proprio vero che le persone (non votanti) non decidano: tutti i giorni infatti incidono concretamente attraverso scelte economiche, sociali, relazionali, determinano il presente ed il futuro del paese come chiunque altro ma non delegano nessuno a rappresentare la loro visione di mondo, né spesso sembrano interessate a contribuire in prima persona alla costruzione del bene comune; forse, si dice, perché sfiduciate, stanche, tradite; forse, dico io, anche perché è culturalmente radicata l’idea che ciò che ci riguarda come individui singoli (o come famiglia individuale) debba venire sempre prima del bene della comunità, del benessere collettivo, quasi come se individuo e comunità fossero realtà tra loro inconciliabili.
Allora il tempo che viviamo non può più essere il tempo delle lamentele o delle giustificazioni, anche se esistono validi motivi: occorre ricostruire e serve il contributo di tutti; forse non dobbiamo darci tutti alla politica in senso stretto ma occorre certamente ri-significare la nostra appartenenza alla comunità, stimolare la nascita di una nuova coscienza civile, riappropriarci delle nostre responsabilità senza delegare. In una parola, partecipare.

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