“Educarci al welfare bene comune ha
questo significato: di aiutare l’opinione pubblica, la società nella quale
viviamo e per la quale riteniamo di lavorare, a riconoscere il welfare come
bene comune, come servizio per tutelare i diritti di tutti i cittadini. Il
futuro del welfare è affidato alla nostra fragile capacità di argomentare,
rendere visibile, di trovare parole che sappiano parlare fuori dai nostri mondi,
intercettando sensibilità e disponibilità.”
Questo
concetto, che credo il vero nodo della questione, apre molte domande, che, per
il mio punto di osservazione, riporto ad una riflessione rispetto al contesto
locale che quotidianamente vivo.
1)
In primo luogo CHI è in grado di trovare parole che sappiano parlare fuori
dai nostri mondi…? Chi è pronto
per farlo? Chi ha maturato in modo consapevole questo ruolo? A chi compete? Quali
sono i soggetti che immaginiamo possano assumere questo compito?
Forse i soggetti più indicati sono gli
Amministratori Locali? Quante volte incontriamo Sindaci e Assessori che
mantengono una visione del sociale ancorata a logiche di beneficenza, di
pronta risposta all’emergenza e, peggio ancora, di intervento finalizzato al consenso.
Ci
sono anche Amministratori più aperti e meglio strutturati, ma è veramente
difficile trovare figure che riescano ad impostare
una programmazione sociale partendo da un posizionamento strategico definito in
chiave promozionale, per la tutela dei diritti, per il bene della comunità intera
che amministrano.
Permane
ancora largamente diffusa una gestione del sociale per “il sottogruppo” dei
propri cittadini che non ce la fanno, per la “fetta” di popolazione in condizione
di disagio, quindi per una componente marginale e ai margini della comunità.
Sono
convinto che gli Amministratori Locali debbano assumere un ruolo di primo piano
per parlare all’opinione pubblica, per coinvolgere la società nella sua
interezza, per mediare una visione che identifichi il sociale con la società. Credo però
che serva un costante lavoro di accompagnamento e di condivisione che permetta
a chi amministra le nostre città di sviluppare un’idea di welfare che non si
riduca allo stanziamento di qualche fondo stratificato nel bilancio comunale.
Forse questo ruolo compete agli Operatori
Sociali? Sia chi lavora nei servizi pubblici, sia chi lavora nelle
strutture del privato sociale è capitale sociale del contesto in cui opera. Di
conseguenza sembra immediato che possano essere gli operatori sociali i
soggetti in prima linea per promuovere questa sfida. Ma per aspirare a parlare
“fuori dai nostri mondi” dobbiamo aver consapevolezza di quante parole servano
ancora al nostro interno.
Siamo
ogni giorno impegnati in processi di ricostruzione del senso di ciò che stiamo
facendo. Da più parti arrivano segnali di frammentazione, di disorientamento,
di mancanza di un quadro certo e condiviso.
Anche
noi operatori siamo tendenzialmente portati a richiuderci (forse per
sopravvivere) all’interno di confini certi. A guardare ai “nostri utenti” come
gli unici ed esclusivi destinatari del nostro agire. Anche noi operatori ci
autolimitiamo, ci “ritagliamo su misura” il nostro target . Questo ci porta a
perdere di vista la comunità, il lavoro per il bene comune. La promozione e la
tutela dei diritti è spesso “interpretata” come accesso a servizi e a
prestazioni e non trova respiro verso una piena realizzazione delle
potenzialità e delle risorse delle persone.
E’
come se gli operatori non riescano a legittimarsi verso ruoli nuovi, più ampi e
eccedenti rispetto ai destinatari “tipici” del servizio sociale.
Spero
di non essere frainteso: non credo che sia solo un problema dei singoli. Nella maggior parte dei casi le stesse
organizzazioni mortificano le tensioni e limitano la sfera di azione possibile.
Anche
in questo caso non è corretto generalizzare e in questi anni si sono intraviste
esperienze che hanno aperto strade nuove. Forse l’elemento rilevante è la
mancanza di continuità, l’eccessiva fragilità dei percorsi innovativi, troppo
dipendenti da decisori che cambiano di continuo e da risorse mai certe e
stabili.
Forse questa nuova spinta può arrivare
dal basso, dalle comunità stesse, dall’impegno informale? In questi anni abbiamo avuto modo di
notare un incremento di iniziative di partecipazione informale che hanno
vivacizzato le nostre comunità. Famiglie che si sono messe insieme in comitati per
sostenere la scuola frequentata dai lori figli. Officine di riflessione nate in
occasione di una campagna elettorale che poi hanno continuato la loro attività
di impegno volontaristico su un determinato tema. Gruppi di cittadini che hanno
“adottato” un’area verde, uno spazio pubblico e che ne curano la pulizia e la manutenzione.
Giovani-pensionati che mettono a disposizione il loro tempo
per servizi di trasporto, per il piedibus, per fare i nonni vigile,... e altro
ancora.
Questi
movimenti sono certamente positivi ed encomiabili, ma a voler ben guardare in
alcuni casi si possono ritrovare motivazioni che hanno origine nella ricerca
del bene “particolare” e non tanto del “bene comune”.
L’azione
positiva di questi cittadini rischia di porsi in contrapposizione con l’ente
pubblico e diventa una rivendicazione che sfocia nel “facciamo da soli” ciò che
ci serve, mettendo al centro un interesse legittimo, ma di parte.
Su
questa linea si collocano giudizi negativi verso i servizi e gli operatori del
pubblico oltre che valutazioni superficiali verso realtà del terzo settore che
“vivono” alle spalle dei bisogni della gente.
Nascono
così delle iniziative che non sono finalizzate alla ricerca comune di soluzioni
ai problemi della comunità, ma che si connotano come “moti di reazione”
rispetto a mancata soddisfazione delle proprie esigenze particolari.
Il
moltiplicarsi continuo di gruppi, la nascita inesorabile di nuove associazioni,
sempre più “specialistiche” rispetto all’ambito di intervento, oppure il
duplicarsi di enti a tutela di un determinato target, fanno sorgere il dubbio che ognuno sia alla ricerca di un
proprio spazio, per dare visibilità al proprio problema e per concorrere
all’ottenimento di soluzioni attese e pretese, anche a discapito di altri.
In
questo contesto si ritrova una positiva dimensione relazionale che porta le
persone ad agire insieme, a creare legami rispetto ad un determinato obiettivo.
Forse serve però un salto di qualità affinché questa tensione all’impegno possa
diventare attenzione ai problemi (non solo ai miei problemi), vicinanza a chi
ha bisogno (non solo a chi condivide i miei bisogni), una forma di “ fraternità
tra sconosciuti” che può dare valore ad un welfare comunitario fondato in primo
luogo sulla dinamica relazionale tra le persone.
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