lunedì 28 marzo 2011

IL SALOTTO DELLE BUONE PRATICHE


In occasione della sua ottava edizione, Fa' la cosa giusta! - Libera la tua voglia di cambiare, Milano ha dato vita ad uno spazio dedicato agli espositori, partner e sponsor della Fiera su problematiche legate all’avvio e allo sviluppo di imprese sociali, profit e no profit, la crescita del numero di imprese in grado di creare occupazione e innovazione coniugandole con valore sociale e protezione ambientale, capacità al servizio dell'economia solidale e sostenibile italiana, consumo critico e stili di vita sostenibili.
Intrufolandomi tra gli stands ho subito le suggestioni di ciascuno di essi, pensando nel contempo ad una immagine che ho coniato col titolo gli integratori del welfare” svelandosi in un doppio senso.
Il primo, più scontato ma mai abbastanza esplorato a oltre dieci anni dall’approvazione della legge di riforma dei servizi sociali, riguarda l’integrazione tra diversi servizi di welfare. Questi servizi convergono in uno stesso luogo: hanno il pregio di aver preso alla lettera la legge 328, costruendo vere e proprie filiere di inclusione senza limitarsi a teorizzarle nei documenti di programmazione. Ma non possiamo fermarsi qui. Il secondo significato richiama un’ulteriore competenza: dare l’integratore ad un welfare un pò a corto di risorse. Come? Aprendosi al territorio non con dichiarazioni d’intenti, ma attraverso progetti e servizi per un pubblico volutamente differenziato.
Accenno qualche buona pratica che si potrebbe ulteriormente e facilmente arricchire.
Ad esempio aziende agricole (produttori e trasformatori) e distributori biologici e biodinamici; realtà che difendono la biodiversità; produttori locali a “Km 0”; associazioni ed istituzioni impegnate in progetti di educazione all'alimentazione e in difesa della sovranità alimentare, consorzi di tutela dei prodotti tipici. Consumo critico, economia carceraria e turismo solidale.
Ed ancora, strutture ricettive dove risiedono famiglie che intercettano la pluricitata “zona grigia” di chi non è troppo povero per accedere ai servizi sociali ma neanche ricco a sufficienza per stare sul mercato. Insomma imprese sociali che sono asset della comunità. Anche in senso infrastrutturale perché spesso la sede fisica dei loro servizi è un bene immmobile restituito a finalità di interesse pubblico. Ma soprattutto perché hanno saputo metterne al lavoro le diverse espressioni: quelle che curano o si fanno carico ed anche le componenti più scettiche, se non contrarie, a questo strano mix. Certo le esperienze in atto sono, nella maggioranza, attività complesse che necessitano tempi lunghi e business plan articolati dove le modalità di transazione (dal mercato “aperto”, alle donazioni, passando per gli appalti pubblici) devono fare compensazioni tra varie voci di spesa.
Ma nello stesso tempo bisogna saperci fare con la rendicontazione sociale per misurare impatti di svariata natura da comunicare a stakeholder altrettanto diversi da valorizzare.
La sintesi della sintesi dice che la sussidiarietà oggi è tutta (o quasi) verticale e mediata da categorie tecnico manageriali: efficienza, economicità, controllo, ecc.
In questo contesto il terzo settore/civile ha ben poche alternative: o si adegua, facendosi colonizzare, o cerca altri spazi di azione. E’ complicato operare lungo la cinghia di trasmissione delle risorse pubbliche che, in attesa del federalismo fiscale, gira a pieno regime in senso top-down. Ed è dura fare advocacy quando si auspica la costumer satisfaction. Il tutto, va detto, con il beneplacito dei cittadini che guardano alle virtù di chi amministra il potere politico.
Rimane però uno spazio - pure in espansione - delimitato dal progressivo polarizzarsi del welfare pubblico intorno ai bisogni dell’elettorato mediano, anche a causa di una contrazione delle risorse economiche che in ambito socio assistenziale non si era finora mai vista. In questo spazio, che è uno "sparpaglìo" di problemi e di opportunità dove è troppo complicato e - da tanti punti di vista - poco conveniente intervenire per la “megamacchina” della sussidiarietà verticale, si possono fondare (o riconvertire) progetti alternativi, realmente orientati a obiettivi d’interesse generale. Del resto non è mestiere da imprenditore sociale quello di attrarre e combinare risorse “sparse per la comunità”?  Forse questa è la cosa giusta !

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