domenica 9 gennaio 2011

LA MORTE VAL LA PENA DI UN CAFFE'


“Quanto costa al giorno un detenuto allo Stato? Dai 200 ai 300 euro.

Quanto costa una pallottola? Circa 20 centesimi.”

Il matematico da bar non ci va per il sottile quando si parla di politica, va subito al sodo, con una logica stringente che inchioda alla sedia qualsiasi avventore pseudo-progressista. Il progressismo, si sa, ormai è vecchio, i valori costituendi sono solo lettera morta.
Un ostacolo alla “politica del fare”.Questo approccio utilitarista devo dire che mi affascina, non posso farne a meno, mi ricorda i bei tempi dell’università, quando si misuravano le grandi questioni morali con le analisi costi-benefici.
E l’ormai consueto adagio dell’analisi costi-benefici sulla questione carceraria stimola la mente, non c’è che dire.
Ogni tanto la cronaca ci porta a pensare agli impensabili chiusi nelle carceri e partono le cifre: costi, sovraffollamento, suicidi, reati, stranieri, ecc.Immancabilmente ritorna il tema della pena di morte, come grande deterrente e come soluzione ai mali, anche di carattere economico, che ci affliggono.
Non ho grande dimestichezza con il tema, lo ammetto, ma leggendo qua e là, mi sono imbattuto in questo scritto che volevo proporvi come spunto:


…il paradosso della deterrenza è che la sua efficacia è inversamente proporzionale alla gravità dell’azione. I delitti più gravi sono quelli che vengono commessi per acquisire grandi vantaggi o che, proprio per vincere la riluttanza a compiere un atto umanamente confinante con il tabù (come l’uccisione di un’altra persona), richiedono una determinazione particolarmente elevata, e dunque sono proprio quelli che non patiscono, per lo più, alcuna dissuasione legata alla pena.

Chi commette un delitto sanzionato con una pena comunque elevata […] non è pensabile che si possa ritrarre di fronte alla pena di morte e consideri accettabile una condanna all’ergastolo o a venti anni di carcere. […]


Aggiungo che per i reati mostruosi, […] (commessi da persone disturbate mentalmente n.d.r.) la pena sarebbe persino inutile, proprio perché non sarebbe necessario dissuadere alcuno. […] 

Invece, su chi riceve dal reato un vantaggio piccolo una deterrenza severa cancellerebbe perfino gli incentivi derivanti dall’alta possibilità di farla franca. Chi guiderebbe più in stato di ebbrezza se la pena prevista fosse di diciotto anni? Ma un sistema così strutturato sarebbe paradossale e ribalterebbe il normale assetto delle pene, per cui le più gravi sono punite più gravemente di quelle più lievi.Tuttavia: se una tale impostazione si rivelasse utile perché non applicarla? Un utilitarista ci ribatterebbe che un sistema siffatto […] sarebbe inutile perché la gente lo respingerebbe. Ma questo significa che nella razionalità penale c’è qualcosa che esula dal concetto di stretta utilità. 

Chiarisco ancora meglio. Se conta solo l’utilità generale perché non colpire i figli del trasgressore (come in effetti fa, proficuamente dal suo punto di vista, la mafia)? In fondo il nesso colpa-pena sarebbe rispettato poiché si lede, sia pure non direttamente ma negli affetti, il colpevole e sicuramente la misura avrebbe una forza dissuasiva irresistibile. Mi rendo conto che un utilitarista potrebbe avventurarsi in una serie di complicate analisi di costi e benefici per dimostrare che una misura del genere non sarebbe conveniente. Ma, messo alle strette, dovrebbe ammettere che la sanzione non avrebbe l’utilità auspicata in quanto la gente si ribellerebbe, ripugnando il sistema al comune senso di giustizia.In questo modo, però, si riconosce che non è l’utilità a creare la giustizia ma la giustizia a condizionare l’utilità.” 
Brano liberamente riadattato da Remo Bassetti, Derelitti e delle pene, Editori Riuniti, 2003.

Difficile fare un discorso del genere al bar, ma ci si può provare.

Nessun commento:

Posta un commento