sabato 26 febbraio 2011

MOTIVARE LE PERSONE NON E' QUESTIONE DI INCENTIVI

Continua la riflessione sul benessere nei  diversi "luoghi" di vita delle persone.
Sul tema abbiamo già pubblicato diversi contributi: riportiamo ora un articolo di Luigino Bruni apparso su Vita il 18 febbraio 2011 

Molti economisti sono arrivati alla conclusione che questi strumenti producono un effetto opposto, perché entrano spesso in conflitto con le motivazioni intrinseche di chi lavora. Per questo è ora di trovare meccanismi nuovi.
L’economia di mercato ha contribuito ad emancipare definitivamente il lavoro dal suo statuto di inferiorità e a renderlo, sempre più, il grande protagonista dell’uomo libero, fondandoci democrazia e Repubblica (art.1). Eppure oggi il lavoro è sottoposto a tensioni: lodato ed esaltato da una parte, asservito al consumo e alla speculazione dall’altra.
In questa stagione di crisi economica e sociale, il lavoro è forse la questione più urgente , che ci chiama ad una riflessione più profonda e in gran parte nuova rispetto ai dibattiti ideologici del secolo XX, su che cosa sia veramente lavorare, e su che cosa sia il lavoro all’interno della vita.
Partiamo da due situazioni quotidiane.
Sono invitato a cena, porto un vassoio di pasticcini, e il mio ospite mi dice <grazie>. Prendo un caffè in stazione, e dopo averlo pagato il prezzo, dico <grazie> al barista. Due grazie detti in contesti che sembrerebbero molto diversi: dono ed amicizia nel primo, contratto e anonimato nel secondo.
Eppure usiamo la stessa parola: grazie. Perché? Che cosa accomuna questi due fatti apparentemente cosi distanti, almeno nella cultura delle nostre società di mercato? La prima cosa che li accomuna è il loro essere incontri liberi tra esseri umani.
Sono convinto che quel grazie che non diciamo solo all’amico ma anche al barista, al panettiere o al cassiere del supermercato, non sia solo una buona educazione o abitudine, ma quel grazie esprime il riconoscimento che anche quando non stiamo facendo altro che il nostro dovere, nel lavorare c’è sempre qualcosa di più del dovuto, che trasforma quello scambio in un atto veramente umano; anzi, potremmo dire che il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre la lettera del contratto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone, pulire un bagno, o tenere una lezione.
IL FATTORE COMPETITIVO
È qui che incontriamo un importante paradosso, che si pone a cuore delle attuali imprese  e organizzazioni. I lavoratori e i dirigenti di ogni impresa sanno, se sono bravi e onesti, che il lavoro è veramente tale e porta anche frutti di efficienza ed efficacia, quando esprime un’eccedenza rispetto al contratto e al dovuto, quando è dono (come ci ricorda l’ultimo libro di Norbert Alter, Donner et prendre). Infatti, soprattutto nelle moderne organizzazioni complesse, se il lavoratore non dona liberamente le sue passioni, la sua intelligenza, le sue motivazioni intrinseche, nessun controllo, incentivo o sanzione può riuscire ad ottenere da quel lavoratore la parte migliore di sé, che poi diventa anche fattore competitivo essenziale per il successo dell’impresa stessa.
Oggi è sempre più vero che il successo delle imprese nella concorrenza internazionale dipende soprattutto dal capitale umano, dalle persone e dalla loro intelligenza e creatività, che fanno crescere l’azienda e producono ricchezza quando mettono in gioco tutte se stesse nello svolgimento di una data professione o nell’eseguire un compito all’interno di una organizzazione. Chiunque lavora in una organizzazione sa che queste dimensioni del lavoro, motivazionali, e oserei dire, spirituali, non possono essere comprate o programmate, ma accolte dal lavoratore come espressione della sua reciprocità, del suo dono. Posso comprare con opportuni incentivi la prestazione, ma non possiamo comprare sul mercato del lavoro quanto veramente  serve alla mia impresa per poter vivere e crescere. Posso, in altre parole, acquistare e controllare quando entri ed esci dall’ufficio, posso verificare che cosa fai nelle otto ore di lavoro, ma non possono ne controllare ne comprare come lavori, con quanta “anima”, passione e creatività vivi quelle otto ore di lavoro al giorno.
Le clausole e le caratteristiche dei contratti di lavoro si fermano esattamente prima di entrare nelle cose che veramente contano in una relazione umana di lavoro, che dura per anni e che vive di tutte quelle dimensioni che nessun contratto può né prevedere né specificare. È come dire che con i normali contratti di lavoro e con gli altri incentivi si riesce a “comprare” soltanto la parte meno importante del lavoro e del lavoratore umano, quell’ attività troppo simile a quella delle macchine, ma non si riesce ad ottenere quelle dimensione più profonde e qualitative dell’attività lavorativa, dalle quali dipende e – qui sta il punto! – la gran parte del successo anche economico dell’impresa.
E i vari sofisticati meccanismi incentivanti che possono trovare, essendo necessariamente strumenti esterni e estrinseci, non saranno che parziali ed imperfetti; e, nel peggiore dei casi (tra l’altro sempre più frequenti, e molto studiati oggi dagli economisti), questi strumenti producono l’effetto opposto, poiché gli incentivi monetari entrano spesso in conflitto con le motivazioni intrinseche dei lavoratori.
A CHE COSA SERVONO GLI INCENTIVI?
È qui allora che emerge il paradosso, quando cioè si rende conto (e sempre di più) che le imprese, e in generale le organizzazioni, hanno costruito un sistema di incentivi e di ricompense che non riesce a riconoscere il “di più” del dono presente nel lavoro umano. Se, infatti, le imprese usano gli incentivi classici (denaro ad esempio), il “di più”, del dono viene riassorbito all’interno del contratto e del doveroso,e quindi scompare; se però per evitare questa scomparsa del dono le imprese e i loro dirigenti non fanno nulla, con il passare del tempo l’eccedenza del lavoratore viene meno, producendo tristezza e cinismo nei lavoratori, e peggiori risultati per l’impresa.
Credo che stia proprio in questa impossibilità di riconoscimento dell’eccedenza del lavoro una delle ragioni per cui, in tutti i tipi di lavoro (dell’operaio, al professore universitario), dopo i primi anni arriva quasi sempre una profonda crisi. Ci si sente valutati molto meno di quando si vale, perché le organizzazioni non trovano il linguaggio per esprimere tutto ciò che si trova tra lo stipendio e il dono della propria vita.
Sono convinto che si cambi spesso lavoro proprio perché si va in continua ricerca di questo riconoscimento e quasi mai arriva. In questa fase di cambiamento epocale anche nella cultura del lavoro, l’arte più difficile che i dirigenti di imprese e organizzazioni debbono imparare e coltivare è proprio l’arte dei meccanismi che sappiamo riconoscere, almeno in parte, il dono presente nel lavoro, in ogni lavoro.  

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